Arbitro! Mettiti gli occhiali… di Google

Ormai se ne parla da qualche mese e le sperimentazioni sono già in atto per quanto riguarda l’eventualità che gli arbitri di ogni tipo di sport possano indossare i Google Glass durante lo svolgimento della loro attività arbitrale.

Arbitro con i Google Glass: Fotomontaggio

Arbitro con i Google Glass: Fotomontaggio

Google Glass: Dettaglio

Google Glass: Dettaglio

Per chi non lo sapesse, i Google Glass hanno l’aspetto di un paio di occhiali ma nascondono all’interno di una delle due stanghette un sistema di acquisizione, trasmissione e ricezione di dati visivi via Wi-Fi o Bluetooth . In particolare per i dati in ricezione, il fruitore di questi occhiali può visualizzare immagini, video e testi sul fondo di un prisma di vetro che è posizionato sulla montatura senza che dia limitazioni alla visione normale della realtà.     Ed è su questo strumento che la nascente industria della Realtà Aumentata troverà la spinta per generare innumerevoli contenuti specifici di nuova concezione da sovrapporre alla visione del mondo reale da parte dei navigatori Mobile. Nel caso di un arbitraggio con l’ausilio dei Google Glass è l’indossatore degli occhiali che genera contenuti per condividerli con altri navigatori connessi: tecnici sportivi o tifosi. La Bundesliga , lega federale calcistica di Germania e Austria, ne discute seriamente. Vuole fornire agli arbitri onesti uno strumento che generi inconfutabili prove che durante la gara, nel momento in cui si verifichi un fallo, l’arbitro non abbia realmente visto (sarebbe meglio dire inquadrato) l’infrazione commessa da un giocatore. E così, sia i commissari delle federazioni sportive di ogni genere e nazione, che i commentatori sportivi di ogni media, potrebbero avere un’ulteriore prova generata sul campo per vivisezionare le azioni degli sportivi. Ma nel caso in cui l’arbitro abbia “inquadrato” il fallo e non l’abbia realmente rilevato ? Sarebbe comunque colpevole? O le federazioni calcistiche e i tifosi saprebbero distinguere un’omissione voluta da una fallace percezione visiva? A mio parere, in questo caso, l’arbitro potrebbe essere messo con più facilità alla gogna da parte dei tifosi.

Qui di seguito troverete il link al video girato con un paio di Google Glass indossati dall’arbitro durante un’incontro di Arti Marziali

http://youtu.be/_gC4I-178KY

La condivisione in tempo reale della visione soggettiva dell’arbitro, soprattutto per incontri come quelli dei mondiali di calcio, sarebbe anche un’ulteriore contenuto video che le grandi aziende televisive di ogni paese si contenderebbero. Gli spettatori potrebbero così seguire la propria squadra da un’inquadratura mai realizzata prima nella storia delle trasmissioni sportive. E allora perché non andare oltre con l’uso di questi occhiali negli incontri sportivi? Perché non far indossare un paio di occhiali ad ogni giocatore? Così potremmo vivere comodamente a casa nostra ogni prodezza del nostro beniamino sportivo come se stessimo vedendo l’azione dai suoi occhi!

SKY della diretta di Formula1

Diretta TV di Formula 1 della Piattaforma SKY. Dettaglio del Mosaico dei canali dedicati all’evento

Del resto per la Formula 1 e il Moto G.P. qualcosa di simile accade già. Piattaforme televisive come quella di Sky ci mostrano già soggettive dei piloti sopra le loro autovetture in corsa. Quindi perché non mostrare la soggettiva di un calciatore che gioca e riprende in diretta quello che fa con uno stile di ripresa più vicino a quello di un cameraman di guerra?   Potrebbe risultare un’assurdità ad alcuni quest’ultima cosa, ma pensate a quanto gioverebbe al mercato del pallone. Per prima cosa questo moltiplicherebbe l’ammontare dei diritti televisivi che una squadra d’interesse potrebbe ricevere. Immaginate di vedere Balotelli mentre mette a segno un fantastico goal o mentre in modo infantile strattona un giocatore avversario che lo ha marcato troppo stretto in precedenza. Un’inquadratura in più rispetto a quella dell’arbitro potrebbe rilevare le azioni fallose direttamente dallo sguardo dai diretti interessati. Sicuramente trasformare la gara in un complesso Grande Fratello snaturerebbe lo spirito primordiale di fondo di ogni attività sportiva. Ma il colosso di Google preme perché tutti abbiano i propri occhialini. Su questi argomenti ci ritorneremo sicuramente perché le applicazioni, implicazioni e complicazioni sono tante. Provate solo ad immaginare se questo desiderio di voler guardare con gli occhi di qualcun altro si spostasse verso gli oggetti. In questo caso il passo sarebbe verso un’applicazione di una serie di micro-videocamere all’interno degli strumenti sportivi, come ad esempio all’interno di un pallone. L’immagine non sarebbe perfetta ma non sarebbe impossibile utilizzare software per realizzare una discreta stabilizzazione della ripresa. Assurdo e improbabile tutto ciò? Staremo a vedere.

Soccket Ball

Soccket Ball è la palla che può alimentare un led e si ricarica con 30 minuti di gioco.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Per le esigenze di alimentazione della videocamera interna al pallone una soluzione già esiste: Soccket Ball è una palla che trasforma l’energia cinetica, applicata su di essa dai giocatori, in energia elettrica. C’è una batteria dentro la palla che più la calci e più si ricarica. E ora potete esclamare come vostro nonno: “… ma dove andremo a finire?”.

 

Articolo pubblicato su www.smarknews.it




Social Media e Profondo Spazio

La ricerca in ambito Spaziale, se proporzionata alla vastità dell’argomento, è da considerarsi ancora agli albori. La stessa definizione di “Spazio” richiama l’idea di un volume indefinito e inesplorato. Se poi questa parola “Spazio” dovesse cercarsi moglie sarebbe sicuramente “Ricerca”.

La nostra attuale conoscenza dello spazio è solo frutto della ricerca scientifica.

Cercando il termine “ricerca scientifica” sul web (anche in diverse lingue) non può non saltare all’occhio il link verso la definizione data da Wikipedia: ” La ricerca scientifica è un’attività umana avente lo scopo di scoprire, interpretare e revisionare fatti, eventi, comportamenti e teorie relative a qualunque ambito della conoscenza e dell’esperienza umana (sebbene il senso comune tenda a restringerla ad un ambito detto natura), usando metodi intersoggettivi e condivisi cioè basati sul metodo scientifico.”

Antares Rocket Preparation

Antares Rocket Preparation
Photo Credit: NASA/Bill Ingalls – Licenza CC BY 2.0

Quindi alla base della Ricerca Scientifica c’è la condivisione dell’esperienza del ricercatore. E qual è attualmente il modo più veloce e potente per condividere queste esperienze? L’uso dei Social Network ! Questi diventano megafono di amplificazione dei risultati e imbuti verso archivi di dati di ogni genere.

Pertanto nessun centro di ricerca può disdegnare di usare un tale strumento, che diventa mezzo sia di divulgazione delle scoperte e sia di sostegno per la raccolta di fondi per l’attività stessa. Ancor più se questo strumento ha costi praticamente pari a zero.

E così che anche il National Aeronautics and Space Administration , cioè la NASA, promuove e comunica il suo programma aerospaziale non solo attraverso il suo sito ufficiale ma anche per mezzo di Twitter, Facebook, Google Plus, Youtube, Instagram, Flickr, Ustream, Forsquare e Slideshare.

Stessa cosa fanno i singoli centri di ricerca dipendenti dalla stessa NASA, puntando sempre più ad un effetto virale della comunicazione delle attività.

Molti altri paesi che hanno un programma aerospaziale stanno utilizzando i social media per amplificare la propria promozione, ma nessuno sino ad ora arriva ai livelli della NASA.

Eruzioni sul Sole - Aprile 2014

Eruzioni sul Sole – Aprile 2014
Credit: NASA/Goddard/SDO – Licenza CC BY 2.0

Sfogliando le immagini pubblicate sui vari canali sociali NASA si finisce quasi per credere che quei profili siano tenuti dallo stesso Spazio e che l’immagine inviata dal Telescopio Hubble non sia altro che un selfie che il Cosmo ha postato per noi umani.

 

Molte di queste immagini sono assolutamente da vedere, solo per condividere le stesse emozioni del personaggio del replicante del film di Blade Runner (pellicola tratta dal libro di Philip.K. Dick) , per poi poter dire: “Ho viste cose che voi umani non potreste immaginarvi, …”

 

 

Qui riporto i link dei vari canali principali della NASA

http://twitter.com/nasa

http://www.facebook.com/nasa

https://plus.google.com/+NASA

http://www.youtube.com/NASA

http://instagram.com/nasa

https://www.flickr.com/photos/nasahqphoto/

http://www.ustream.tv/nasa

https://foursquare.com/nasa

http://www.slideshare.net/NASA

 

Articolo pubblicato su www.smarknews.it




Architettura, architetti e Spot Tv

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La famiglia italiana da 50 anni è chiusa in una casa a forma di tv.

Si parla sempre di qualità dell’architettura rivolgendosi agli addetti del settore: amministratori e progettisti di ogni Ordine e grado. In ogni dibattito che abbia come tema il tessuto urbano esistente, ci si chiede come mai la qualità spesso non faccia parte delle nostre città. E in modo sbrigativo si dà la colpa alla cattiva amministrazione, al profitto e a progettisti senza qualità che esercitano nella loro professione solo il potere del timbro.

In buona parte è vero. Ma resta il dubbio: quanta gente vuole veramente la qualità? E che forma ha nella loro testa?

Complessa la risposta. Forse sarebbe necessario eseguire un sondaggio di mercato sui gusti e sul livello di percezione della qualità architettonica, proprio come si fa con un detersivo o un’automobile prima del lancio sul mercato. Eppure ci sarà un senso comune dell’Architettura di Qualità. Ci sarà un modo per poterla riconoscere, anche solo per un attimo, senza dover per forza ricorrere ad un call center per effettuare una ricerca a campione?

Si può provare a cercare qualche traccia nell’universo visivo dei luoghi comuni della pubblicità. Come sono fatti gli edifici degli spot? Che aspetto hanno i luoghi scelti da fotografi, registi e creativi di ogni genere, per far catalizzare l’attenzione sui prodotti reclamizzati?

Chi meglio dei creativi pubblicitari può aiutarci a capire? Per mestiere sono abituati a percepire i luoghi comuni del visivo, e a sintetizzarli e usarli come rafforzativi del messaggio pubblicitario. La loro sintesi non è una scienza esatta, perché la loro professione si muove pur sempre in ambiti fortemente creativi. Ma di certo il loro messaggio visivo deve colpire lo spettatore, emozionandolo e mostrandogli qualcosa che lui possa riconoscere, comprendere e metabolizzare in tempi immediati.

Il rapporto tra architettura e pubblicità di questi ultimi anni è molto forte. Tanto per cominciare in diversi spot è possibile riconoscere distintamente la figura dell’architetto. Riconosciamo l’architetto che, gustandosi una brioche Kinder, si prende una pausa dal faticoso disegno che sta realizzando su un anacronistico tecnigrafo. Un altro architetto lo ritroviamo nella donna distinta che firma con Telecom il suo contratto di servizi telefonici aziendali, mentre fissa lo schermo di un computer con il sorriso soddisfatto dei vincenti nel rimirare il suo ultimo progetto.

Quindi nell’immaginario collettivo c’è la figura del progettista,  che spesso è un architetto.

E considerato uomo di gusto e capace di vincere grazie alla forza delle sue idee e della sua creatività. Unica nota dolente di questi spot sono i disegni del progetto presenti al fianco di questi testimonial: un anonimo scatolone ravvivato solo da finestre e porticati fatti in serie.

Persino in uno degl’ultimi spot della Wind i comici Aldo, Giovanni e Giacomo sentono la necessità di chiedere una consulenza a “l’architetto Cazzuola”. Nella prima versione lo spot si concludeva con la battuta: Non è architetto, è geometra!”. Dopo la querela dell’Ordine dei Geometri. la battuta è diventata: “Altro che architetto, se non ha finito nemmeno la scuola materna!”.

 

Ma nella pubblicità odierna, l’immagine del “personaggio” che ama e crea la qualità non è semplicemente una figura idealizzata che vagamente ricorda un architetto. Spesso è rappresentato in carne ed ossa dalle archistars. E così ritroviamo Norman Foster per gli spot degli orologi Rolex, Frank Gehry per i mobili Vitra, OMA per Prada, Michael Graves per il caffè Millston e gli italiani Massimiliano Fuksas, per le automobili Renault, e Renzo Piano per la Lancia. Per capire quanto sia forte questo legame tra architetti e design di qualità nei luogi comuni degli spot pubblicitari basti pensare che il NAI (Netherlands Architecture Institute) di Rotterdam nel maggio del 2005, ha realizzato una mostra proprio dedicata a questo tema dal titolo “Ads & Architect. The architect as a marketing Tool” . Erano presenti 90 esempi di pubblicità, tra spot televisivi e campagne stampa, dove architetti e advertisers si usavano reciprocamente per creare ed accrescere la propria immagine.

Non ci resta che passare all’ immaginario architettonico-urbano rappresentato negli spot della tv italiana. Il lessico architettonico della città di New York, e poi Parigi come sua antitesi… e a seguire esempi architettonici provenienti da Milano, Roma e Torino.

Il caos delle strade di New York e lo skyline dei suoi grattacieli sono ottimali per far luccicare la carrozzeria di qualsiasi auto, per rafforzare il fascino dell’ultima modella chiamata a reclamizzare un orologio, un gioiello o un profumo unisex. Ogni pezzo di quella città appartiene all’immaginario collettivo, forse più per merito del cinema e del fumetto supereroistico che della pubblicità.

New York è la città presente nei luoghi comuni del pianeta non solo con i suoi edifici lussuosi, ma anche con i suoi quartieri residenziali popolari, fatti di vicoli stretti, di scale antincendio arrugginite, di serbatoi dell’acqua sui tetti e di idranti ai bordi dei marciapiedi pronti ad esplodere alla prima occasione. E con l’immagine della metropolitana, spesso sede di spot per articoli tecnologici portatili: telefonini, e-book, mp3 e videogames. Gli ambienti sotterranei mostrati sono sempre rivestiti da limpide piastrelle e illuminate da diversi colori.

Nelle pubblicità di quest’ultimo periodo New York non è solamente celebrata ma comincia ad essere vista in modo critico, confrontata con spazi più semplici e meno caotici secondo una visione più intimista che negli spot sta prendendo sempre più piede. E così troviamo auto che scappano dal centro in tutta velocità, per poi perdersi in aperta campagna.

 

Parigi negli spot tv è la Tour Eiffel. Poi è anche un insieme di palazzi ottocenteschi con i tetti in rame costellati di romantici lucernai (preferibilmente ovali). E ancora dopo è una città fatta di vicoli pieni di tavolini dei Cafè des Artistes, di lampioni in ghisa, di panchine, aiuole e aree pedonali perfettamente pavimentate. Solo come ultima scelta troviamo la Gare du Nord, l’Operà, le Champ Elise, la Senna e Notre Dame. Un insieme di elementi evocativi di un atmosfera romantica che per Parigi è come una condanna. Abiti firmati e profumi sguazzano in questo tripudio di luoghi comuni del romanticismo.

In contrasto a tutto ciò troviamo, negli sfondi delle pubblicità delle automobili francesi, scorci de
La Defénse. Un fondale contemporaneo come Le Grande Arc è ottimale per inscatolare le curve sinuose delle utilitari francesi.

Potremmo chiederci in che modo i dettagli architettonici delle città come Parigi e New York mostrati nelle pubblicità possano influire sul comune senso della qualità urbana.

In un solo modo: rafforzando nell’immaginario collettivo il bisogno di una città con un grande potere iconico. Le nostre città non sono e non saranno mai Parigi o New York. Ma le loro immagini in tv ci ricordano che segni forti o facilmente riconoscibili sono elementi imprescindibili di una qualità (almeno visiva) condivisa.

E’ su questo principio che si basano una serie di spot degli anni ’80 e ‘90 dal respiro nazionale dove per promuovere prodotti come  i Mondiali di Calcio, la pasta Barilla, o la Coca-Cola, ritroviamo le nostre icone archittettoniche italiane più consolidate: il Duomo della Milano da bere, il Colosseo, il Cuppolone di San Pietro, la Torre di Pisa, il campanile di Piazza San Marco a Venezia, sino ad arrivare con stupore alla Cattedrale di Trani.

Tutte queste architetture sono fortemente riconoscibili e come tali nel paese dei luoghi comuni meritano un posto sul podio della qualità architettonica, senza dover aggiungere altro. Ma che accade quando i manufatti architettonici non sono altrettanto immediatamente riconoscibili?

In questo caso si ripiega su ambientazioni molto lontane dallo standard urbano che il cittadino medio è abituato a percepire, e che hanno un fascino particolare tale da rafforzare l’immagine del prodotto reclamizzato. Oppure troviamo singoli dettagli architettonici, di qualsiasi genere, tali che da soli riescono ad evocare un’idea di città necessaria a supportare la comunicazione del prodotto.

Nel primo caso facciamo l’esempio del quartiere romano disegnato da Gino Coppedè nei primi anni del ‘900 . Diverse case di produzione di spot pubblicitari riconoscono che gli scorci Art Nouveau di questo isolato urbano sono tra le migliori location per pubblicizzare prodotti di design.

Sempre nel primo caso troviamo l’austero e metafisico EUR di Roma. Un intera campagna pubblicitaria della Tim, della Lancia si svolgevano in questo quartiere. La storia del set cinematografico stabile più grande d’Italia è narrata nel libro Eur, si gira. Tra cinema, architettura, fiction e pubblicità la storia e l’immagine di un set unico al mondo curato da Laura Delli Colli ed edito dalla casa Lupetti.

Nel secondo caso troviamo pezzi di città. Troviamo le ampie vetrate degli aeroporti come  Linate, Malpensa, Fiumicino, London Stansted, New York JFK, per poter incorniciare un aereo che è sempre capace di evocare forti emozioni utili al messaggio pubblicitario. Nello spot delle uova pasquali Kinder troviamo uno stuolo di tetti con i coppi rossi, che presto rivedremo ricostruiti in tutto l’Abruzzo terremotato al grido di “Com’era, dov’era!”.  Troviamo nonni che parlano di dentiere, pensioni e prestiti, seduti su una panchina di un bellissimo parco verde e attrezzato (pezzi rari nelle nostre città!). Vediamo cassonetti lucidi per la raccolta differenziata che nascondo piccole macchine come la Smart, immense aree pedonali nelle più belle piazze italiane invase da gente sorridente che siede ai tavolini mentre sorseggia uno spritz. Troviamo tappeti di casette all’americana con l’aiuola innanzi alla casa dove il padre di famiglia parcheggia l’auto.

Troviamo alcuni distinti quartieri torinesi (palazzi edificati nell’arco della prima metà del ‘900 e non oltre) che sono le quinte sceniche della gran parte degli spot Vodafone. Sempre Vodafone ha pubblicizzato prodotti che regalavano il 30% di telefonate in più, ricorrendo all’immagine di un edificio ampliato nel suo volume in modo staticamente improbabile.

Ma dov’è allora l’architettura contemporanea?

Ce n’è poca e spesso si vede solo per merito di automobili. Veloci inquadrature dedicate a scorci prospettici di edifici delle archistars, le stesse citate in precedenza. Tra i più quotati c’è Calatrava che con i suoi ponti aerodinamici stimola la fantasia di tutti i creativi dell’advertising. Una menzione particolare va allo spot di qualche anno fa sempre della Vodafone dove la modella Megan Gale pattinava sui tetti del  Museo Guggenheim di Bilbao.

Dopo questa, sicuramente incompleta carrellata, possiamo dire che nell’immaginario collettivo, o nello scatolone dei luoghi comuni, un surrogato di qualità architettonica c’è! A volte rappresentata in modo distorto ma se non altro menzionata. Si può dire quindi che esiste una comune domanda di qualità urbana, pur non esternata con forza, potenziale e mal formulata.

E allora perchè lasciare al caso?

La pubblicità ha modificato i nostri comportamenti. In bene se i messaggi e i prodotti pubblicizzati erano buoni, in male se il messaggio era diseducativo e ingannevole.

Il regolamento deontologico dell’ Ordine degli Architetti vieta la realizzazione di spot a favore di uno o dell’altro professionista. Ma non vieta la possibilità di pubblicizzare l’architettura e il bisogno di qualità nelle nostre città.

E adesso permettetemi una provocazione: perché non chiedere al nostro Ordine Nazionale  di pianificare una campagna a largo raggio tutta dedicata alla promozione della qualità urbana e architettonica? Forse solo dopo questa azione qualcuno potrebbe cominciare a pretenderla dalle amministrazioni, o a pagarla il giusto come si fa con un telefonino iperaccessoriato, o un SUV dell’ultima generazione.

Articolo di Luca Battista e  pubblicato sulla rivista Architetti Taranto n° 02/2009




Rappresentare il Progetto nell’era dell’ICT

FINE DELL’EPOCA DEL:”SCUSI ARCHITETTO… MA NON STO CAPENDO”

La rappresentazione è il cardine sul quale si basa la strategia di comunicazione delle nostre idee/soluzioni verso coloro che potrebbero finanziare, sostenere o fruire l’oggetto del progetto. La qualità di questa strategia spesso si interseca con la qualità del progetto stesso. Prima dell’era informatica il problema verteva principalmente su quanto esatte erano le rappresentazioni dei volumi e dei vuoti di cui si componeva il progetto, e quanto diffusi erano i simboli e le convenzioni utilizzate nel disegno dello stesso. Rispettare tutte quelle regole della geometria descrittiva applicata al disegno tecnico, e tutte quelle norme grafiche codificate a livello nazionale (UNI) e internazionale (ISO), era sufficiente per rassicurare i progettisti circa il raggiungimento di una buona rappresentazione del progetto. Inoltre la sequenza dei disegni del progetto moderno fa ancora riferimento alle linee guida esposte da Le Corbusier: la pianta, il punto di partenza, poi il volume e poi la definizione delle superfici. E così, sino a qualche decennio fa, squadre, compassi, matite, micro mine, curvilinee, pennini, tavoli da disegno, gomme pane e ghiaccio, carta lucida e carta cipolla erano unici testimoni della lenta costruzione della trama grafica con la quale il progettista cercava di sostenere le sue idee progettuali. Ma molto spesso dopo quell’immane lavoro di rigorosità mongeana, una volta presentate piante,sezioni, prospetti, assonometrie e prospettive al cliente, era probabile sentirsi dire: “Scusate Architetto… ma non riesco ad immaginarmelo”. Ed è qui che gli strumenti dell’ era dell’ Information Comunication Tecnology ci sono venuti in aiuto. Non hanno risolto del tutto il problema ma almeno hanno ridotto l’immane lavoro grafico. Prima c’è stato l’avvento del CAD (Computer Aided Drafting, cioè disegno tecnico assistito dall’elaboratore) che ha visto come software della categoria più diffuso AutoCAD, il primogenito della casa Autodesk. Nato nel 1982 per le piattaforme PC, è riuscito a cavalcare la grande diffusione della stessa piattaforma e dei vari sistemi operativi Windows. La veloce diffusione del CAD è da attribuire anche alla grande diffusione dei sistemi CAM nei cicli produttivi industriali (Computer-Aided Manufacturing, che significa fabbricazione assistita da computer). Tornando ad AutoCAD, questo programma attualmente è utilizzato principalmente per produrre disegni bi/tridimensionali in ambito ingegneristico, architettonico, meccanico e della modellistica tessile. Il documento prodotto è di tipo vettoriale, ovvero le entità grafiche sono definite come oggetti matematico/geometrici: questo permette, diversamente da quanto succede nei documenti grafici di tipo bitmap, di scalarle ed ingrandirle senza perdere qualità. Ma AutoCAD non ha migliorato la qualità della rappresentazione del progetto, ha più che altro snellito le fasi di produzione del disegno di precisione, la modifica e la realizzazione dei salti di scala. Questo strumento ha spostato l’attenzione di chi deve rappresentare il progetto verso problemi che sono legati alla tempistica e alla quantità degli elaborati necessari. La qualità della rappresentazione rimane una opzione possibile, ma laboriosa, tutta a carico dei progettisti.

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L’avvento del blocco nel CAD ha snellito le operazioni di disegno più ripetitive, ma ha anche dato il via ad una cattiva abitudine tra i progettisti: la caccia al blocco preconfezionato. L’era del digitale ha permesso la duplicazione e moltiplicazione di ogni genere di risorsa e contenuto prodotto della creatività umana, facilitando così l’operazione di copia. L’appiattimento della rappresentazione per molti casi è frutto della cattiva abitudine del Ctrl+C & Ctrl+V. Il blocco CAD già pronto ha svilito il progetto del dettaglio o ancor più la personalizzazione della rappresentazione del progetto. La quantità di connessioni agli archivi di blocchi CAD disponibili in rete ne sono una conferma. Il secondo programma CAD più diffuso tra i professionisti della nostra categoria è Archicad, nato sempre nel 1982, e pochi mesi prima di Autocad, dall’azienda ungherese Graphisoft, per la piattaforma MAC. La logica di Archicad si discosta da quella di Autocad. Il prodotto permette all’utente di creare un “edificio virtuale” utilizzando elementi strutturali “reali” come muri, solai, tetti, porte, finestre e mobili. Il programma viene fornito con una grande varietà di oggetti personalizzabili pre-confezionati, che l’utente può creare anche autonomamente, sia usando gli elementi primitivi del programma che utilizzando il linguaggio GDL. ArchiCAD permette di lavorare utilizzando sia la rappresentazione 2D che quella 3D. Piante, sezioni, prospetti, liste di materiali e altri elaborati vengono generati direttamente dal programma in base al modello tridimensionale dell’edificio, e vengono aggiornati in tempo reale. E’ il principio dell’era BIM nel campo della progettazione e degli strumenti di rappresentazione. Nella sua più ampia definizione il Building Information Modeling è il processo di creazione e gestione del modello di informazioni attraverso l’intera vita di un edificio, dalla fase progettuale a quella di uso e manutenzione, passando per la fase di realizzazione. Il modello BIM generato dal progetto può contenere qualsiasi informazione riguardante l’edificio o le sue parti, come la localizzazione geografica, la geometria, le proprietà dei materiali e degli elementi tecnici, le fasi di realizzazione, le operazioni di manutenzione. Un BIM può inoltre computare in maniera semplice ed immediata le quantità caratterizzanti un elemento tecnico (ad esempio la superficie di un intonaco). Anche questo software punta a velocizzare la fase di rappresentazione, oltre a realizzare contemporaneamente una visualizzazione del progetto direttamente in tre dimensioni. Cominciano così a vacillare le linee guida per la redazione del progetto fissate da Le Corbusier. L’approccio Archicad da più possibilità di tenere d’occhio la qualità dell’insieme, di quanto possa permettere Autocad. Per questo motivo nel 2002 il colosso Autodesk, per contrastare la concorrente Graphisoft, acquista la casa softwares Revit ideatrice del software omonimo basato proprio su logiche BIM. Attualmente Revit, Archicad , e il loro simile di origine germanica Allplan, si contendono il titolo di miglior software a larga diffusione per la rappresentazione di modelli virtuali progettati secondo la logica BIM. Ma anche per questi softwares c’è un rischio simile a quello esposto per i blocchi CAD. Il modello BIM nasce grazie all’utilizzo di oggetti già codificati e inseriti in abachi distribuiti insieme al software o acquistabili separatamente. Inoltre lo stesso modello o alcune delle sue parti può essere esportato e riutilizzato all’infinito con tutte le sue informazioni tecniche e estimative connesse. Tutto ciò è utilissimo in termini produttivi ma pericoloso per una possibile stagnazione delle soluzioni creative/qualitative possibili verso problemi simili che differenti progettisti incontrano. Sicuramente il progetto non lo fa il software, ma le scorciatoie di tastiera danno ad una fascia di professionisti pigri o schiacciati dall’unico obiettivo di rispettare le consegne, strumenti che, se non ben dosati, potrebbero appiattire la qualità del risultato. Però rappresentare un progetto e le sue qualità non significa solamente spiegarlo a chi condivide lo stesso bagaglio culturale del progettista, significa anche farlo capire e vedere a chi non sa leggere una rappresentazione tecnica.

Lo sviluppo del CAD 3D e del Rendering (operazione di resa visiva del modello vettoriale schematico generato matematicamente dal computer) fotorealistico ha permesso di ridurre le incomprensioni tra progettista e cliente riguardo l’aspetto finale del progettato. Softwares come 3D Studio MAX, Lightwave, Cinema 4D, Maya hanno permesso di portare la forma del progetto al centro della società dell’informazione. Le anteprime del modello tridimensionali del progetto hanno soprattutto la funzione di convincere clienti e fruitori sfruttando le regole che appartengono alla cultura dell’immagine. In questa direzione sono stati sviluppati anche altri softwares che migliorano l’effetto visivo finale risultante dall’ analisi fisica/ matematica delle luci e delle superfici del modello virtuale. E così softwares come MentalRay, V-Ray o Maxwell dedicati solo a potenziare il controllo degli effetti di luce fotorealistici, sono diventati indispensabili quanto gli stessi softwares di modellazione. Gli strumenti per il 3D attuali permettono di rappresentare sia la 4a dimensione, grazie alle loro funzionalità legate all’animazione dei modelli stessi, e sia i comportamenti dinamici del modello nei confronti di forze applicate ad esso. Quest’ultimo campo di utilizzo è stato ampliato dando origine a tutta una categoria di softwares più vicini all’ambito ingegneristico: calcolo statico e dinamico delle strutture, verifiche termiche ed energetiche di edifici e macchinari, e altro ancora. Elementi architettonici mobili, prodotti di design scomponibili o con parti in movimento, tempi e metodologie di costruzione di un edificio, evoluzione della luce solare negli spazi o sulle costruzioni, possono essere così rappresentate in modo visivamente semplice anche attraverso il tempo dell’animazione e utilizzando il linguaggio cinematografico. Non è una rappresentazione usualmente richiesta il modello 3D animato, ma sicuramente va sempre più diffondendosi anche con il solo obiettivo di evitare la staticità dei singoli render fotografici. In questo caso il rischio è: la spettacolarizzazione del progetto a discapito di finalità e dettagli.

Un’ evoluzione da non sottovalutare, in atto in tutti questi prodotti informatici, è la semplificazione del processo di realizzazione del modello attraverso strumenti e interfacce grafiche di grande semplicità. Figure come quelle di estrusione, di rivoluzione, le superfici rigate, le coniche o le forme elicoidali, diventano facili da realizzare, trasformare e operare con procedure booleane, in alcuni casi anche in modo adimensionale, grazie all’uso di maniglie e icone che rendono il processo intuitivo soprattutto per chi non ha mai avuto a che fare con il disegno tecnico/geometrico. Il processo di realizzazione di figure, superfici o solidi inusuali è semplificato e veloce, liberando definitivamente la forma del progetto dalle difficoltà della rappresentazione dello stesso. I lavori di archistar come Gehry, Eisenman, Hadid hanno per primi usufruito delle grandi potenzialità di questi processi di modellazione. Il progetto in questo caso nasce nello spazio ed è poi revisionato o controllato in pianta, sezione o prospetto.

Immagine

Lo stesso bisogno di realizzare un plastico con le tecniche artigianali del modellismo a breve verrà a decadere completamente. Non solo perché la modellazione virtuale 3D (fotorealistica e non) ci permette di visualizzare tutto in tutte le angolazioni possibili, ma anche grazie allo sviluppo dei sistemi CAM che hanno permesso la commercializzazione di stampanti 3D. Queste macchine in tempi ridotti scavano in un blocco di PVC il nostro prototipo, e all’occorrenza lo colorano in superficie. Le stampanti 3D in commercio della ZCorporation o della Stratasis sono tra le più diffuse. L’insieme di tutti questi strumenti, sia hardware che software, hanno realmente rivoluzionato il modo di rappresentare. C’è da contestare però che i costi di questi strumenti rimangono inspiegabilmente ancora troppo alti affinché possano essere facilmente utilizzati anche dai piccoli studi di progettazione. Le proposte di softwares open-source o freeware che scavalcano questo problema (esempio FlashCAD per il disegno tecnico o Blender per la modellazione e l’animazione 3D) sono ancora incomplete e poco conosciute per affermarsi e contrastare i formati dei file più diffusi di proprietà delle grandi aziende. Un fatto è certo. Il sistema BIM sarà il futuro della rappresentazione del progetto. Le logiche di programmazione dovranno potenziare le possibilità con cui i modelli d’informazioni potranno essere assemblati o rielaborati, e al contempo, i softwares dovranno essere aperti all’implementazione degli elenchi degli oggetti e delle informazioni di cui si compongono i modelli stessi. Ulteriore evoluzione della direzione intrapresa è che la fase di progettazione per molti aspetti sarà semplificata grazie all’utilizzo di questi softwares, studiati sempre più con interfacce for dummy, e di conseguenza, per alcuni casi, alla portata di tutti. Il fruitore progetterà facilmente nel dettaglio la sua casa e al progettista forse rimarrà solo il compito di guidare, controllare o di implementare il software BIM degli oggetti e delle informazioni mancanti per la realizzazione del modello conclusivo. Un esempio pratico per comprendere meglio questa possibilità non tanto remota: il banalissimo software per il designo di interni messo a disposizione in modo gratuito sul web proprio dalla blasonata casa Autodesk sul sito http://dragonfly.autodesk.com/

Naturalmente strumenti del genere pensati per tutti raggirano il problema della rappresentazione e del controllo del risultato, ma non il problema della qualità del progetto. Forse, solo con la larga diffusione di questi softwares, la nostra attività professionale non potrà esimersi dal proporre idee originali e di qualità, per differenziarsi dal progetto fai da te. Considerare importanti e determinanti per la qualità della rappresentazione del progetto (se non proprio del progetto stesso) elementi come il software, le interfacce grafiche, abachi di oggetti aggiornabili (che portano in se informazioni di vario genere utili al progetto e alla vita dell’edifico), potrebbe risultare come argomento un po’ fuori luogo, o fuori tempo, per l’ambito professionale in cui solitamente si muove oggi un architetto. Eppure la professione del progettista con quella del programmatore di software si è già da tempo intersecata in modo determinante.

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Basti pensare che l’introduzione del concetto di pattern in architettura studiato da Christopher Alexander (architetto austriaco che insegna da anni all’Università della California), ed esposto nel 1977 nel libro “A Pattern language” ha influenzato il linguaggio di programmazione verso la “programmazione ad oggetti”. Il “pattern” tradotto letteralmente sta per modello, esempio, campione e, in generale, può essere utilizzato per indicare una regolarità che si osserva nello spazio e/o nel tempo nel fare o generare delle cose. Nell’ambito del design può anche indicare la ripetizione geometrica di un motivo grafico su un piano o nello spazio. La logica della “programmazione ad oggetti” è alla base di tutti i softwares che attualmente usiamo proprio nella nostra professione, è il perno del sistema BIM, ed ha preso vita proprio grazie alle iniziali intuizioni di un architetto. Per cui non c’è da meravigliarsi se nel prossimo futuro i progettisti dovranno anche occuparsi , con l’aiuto di altri softwares o direttamente attraverso il linguaggio di programmazione, di definire un numero di opzioni di assemblaggio o trasformazione di oggetti/ modelli preconfezionati, che i diretti interessati (clienti e fruitori del progetto) monteranno insieme con qualche libertà.

Articolo pubblicato sulla rivista Architetti Taranto Dicembre 2009

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Cinema e Crisi: Un percorso tra film, fiction e teatro che parlano di Crisi, Finanza ed Economia

La parola crisi sta diventando un tormentone dei media al punto tale da essere svuotata del suo stesso significato. Nonostante questo non si può negare che essa esista. Forse i suoi effetti non sono sentiti da tutti ma molti ne sono coinvolti. Se la parola crisi fosse una locomotiva, i sui binari sarebbero finanza spregiudicata e  cattiva amministrazione pubblica, mentre i suoi vagoni si chiamerebbero indebitamento pubblico, bolla immobiliare,  disoccupazione, calo dei consumi, pressione fiscale, riduzione dei servizi pubblici e altro ancora. Di sicuro questo treno ha investito anche il nostro ambito lavorativo rendendolo ancora più incerto.

Raccolta di locandine di film che parlano di crisi economica e ambientale

Raccolta di locandine di film che parlano di crisi economica e ambientale

Pertanto questa motrice che trascina cause ed effetti negativi  è necessario conoscerla e capirla, per poi prenderne il controllo.
E come si fa ad avere un primo approccio all’argomento senza morire di noia al primo round?
Film, televisione e teatro ci possono essere d’aiuto. I prodotti dell’intrattenimento stanno trattando questo tema molto più di quanto non lo facessero prima ed anche con grande impegno .  Spesso la narrazione è capace di riuscire a catturare e trasmettere meglio le sfaccettature e la complessità di un particolare periodo storico.  Ecco una personale selezione di film, documentari e spettacoli teatrali che hanno come tema la finanza e l’attuale crisi economica.
Senza andare lontanissimo nel tempo si potrebbe mettere a capo di questo elenco il film Wall Street del 1987 diretto da Oliver Stone, da sempre il registra più anti-hollywoodiano dell’ industria cinematografica americana. La pellicola è una fotografia dell’avido mondo della finanza degli anni ottanta. E’ Michael Douglas a vestire i panni dell’ immorale personaggio Gordon Gekko che nella storia fa del libero mercato la sua religione e sfrutta a suo vantaggio tutte le falle del sistema borsistico internazionale.
Non è un caso che lo stesso personaggio si ripresenta in una seconda pellicola dal titolo Wall Street – Il denaro non dorme mai  (Wall Street: Money Never Sleeps) del 2010 diretto sempre  da Oliver Stone.  Gordon Gekko, dopo anni di galera e apparentemente rinsavito dalla sua avidità, si ripresenta nel 2008 per avvisare i piccoli e grandi investitori dell’imminente crack che colpirà a breve la disastrata economia  mondiale. Questa volta il regista non vuole solo dare un ritratto del mondo finanziario attuale ma anche una possibile ricetta per il futuro dove ricerca, tecnologia e green economy vanno a braccetto con una finanza eticamente e moralmente più corretta.
Ma crisi finanziaria si traduce subito in perdita di posti di lavoro. Con il tema dei licenziamenti l’industria cinematografica si può permettere di rappresentare un ventaglio di emozioni più ampio rispetto a quelli generati dalla semplice avidità. L’attenzione si sposta verso personaggi più comuni e più vicini alla quotidianità del grande pubblico.Rimanendo tra le pellicole statunitensi, su questa traccia si inseriscono sia la commedia Tra le nuvole (Up in the Air) del 2009 con regia di Jason Reitman, sia il film drammatico The Company Men del 2010 scritto e diretto da John Wells. Il primo film narra di un tagliatore di teste di professione che a sua volta viene disarcionato dal suo posto di lavoro, mentre il secondo mette in evidenza la forte relazione che esiste tra industria, finanza, lavoro e serenità familiare.Sempre sul tema dell’occupazione del cinema europeo è necessario citare il film francese dallo humour nero  Louise-Michel del 2009. E’ una commedia diretta da Gustave de Kervern e Benoît Delépine che prende spunto da alcuni fatti di cronaca e li spinge sino al surreale. Racconta la storia  di un gruppo di operaie licenziate dalla loro fabbrica che decidono di ingaggiare un killer per vendicarsi dell’ingrato padrone.
Ma spesso la realtà supera la fantasia e gli sceneggiatori non devono far altro che rileggere e riordinare gli eventi finanziari degli ultimi anni per estrapolare delle ottime storie.E’ così che nasce il bellissimo docu-film per la televisione Too big to fail – Il crollo dei giganti  del 2011 diretto da Curtis Hanson e prodotto dalla impegnatissima casa di produzione HBO. E’ la ricostruzione fedele  dei fatti avvenuti negli ultimi giorni prima del fallimento della quinta banca più importante d’America, la Lehman Brothers.   Sullo sfondo c’è la bolla finanziaria creata dai mutui subprime del 2008 ma al centro della storia c’è il personaggio reale del Segretario del Tesoro degli Stati Uniti  Hank Paulson, impersonato dal bravissimo William Hurt. Si racconta come costui sia stato  costretto a salvare altre banche sull’orlo del fallimento con fondi statali, ed anche a ridurre la regolamentazione del mercato bancario, che limitava la fusione di enormi gruppi finanziari, pur di fermare l’effetto domino sull’intera economia statunitense e internazionale generato proprio dal fallimento della Lehman Brothers.
Non posso non citare, sempre della stessa HBO, il docu-film di prossima uscita che ricostruisce l’ascesa e la caduta del finanziere senza scrupoli Bernard Madoff diventato ricco e famoso per aver applicato in modo scientifico lo Schema Ponzi per truffare migliaia di risparmiatori. Robert De Niro è il protagonista e il produttore esecutivo di questa pellicola per il piccolo schermo che ha il titolo di  Truth and Consequences: Life Inside the Madoff Family.  La vicenda ha avuto enormi ripercussioni in tutto il mondo ed alcuni istituti di credito italiani di grande rilievo sono tra le sue vittime.  Questo personaggio vero è stato già onorato con un altro docufilm del 2011 non ancora uscito in Italia dal titolo Chasing Madoff  di Jeff Prosserman.Anche riguardo lo Schema Ponzi nello specifico è stato realizzato un documentario:  The Ponzi Scheme  scritto, prodotto, diretto e montato da Billie Mintz nel 2009, disponibile per ora solo in lingua inglese.E il cinema italiano cosa riserva riguardo l’argomento? Ben Poco fin ora. Quel poco prende persino le distanze dalla nostra realtà solo per evitare pericolose querele con gli autori di episodi di mala finanza. Come il film Il Gioiellino  della regia di Andrea Molaioli del 2011 che prende spunto dagli eventi del Crack finanziario della Parmalat, fulgido esempio di “finanza creativa”.
Di recente uscita è L’Industriale, della regia di Giuliano Montaldo, dramma ambientato nella Torino di oggi, dove la crisi economica mette in luce la precarietà degli affetti quando questi si basano solo sulla presenza di un benessere economico. Protagonista è il proprietario di una fabbrica che ha deciso di risolvere i suoi problemi senza farsi scrupoli di ogni sorta pur di salvare la sua azienda e il posto di lavoro ai suoi dipendenti.
Sempre in Italia, ma in ambito teatrale, sono da riportare i coraggiosi show scritti e interpretati da Eugenio Benetazzo professionista preso in prestito direttamente dal mondo dell’economia. E’ considerato tra gli esperti del settore il più autorevole economista fuori dal coro in Italia, conosciuto per il suo modo irriverente e dissacratore con cui analizza e racconta lo scenario macroeconomico contemporaneo.  Attualmente gira l’Italia con lo spettacolo teatrale  Funny Money: Quello che non sapevi  nel quale racconta come entro i prossimi anni il genere umano si troverà a gestire la convergenza spiacevole di tre crisi strutturali: quella macroeconomica, quella energetica e infine quella alimentare.Anche i paesi come Grecia e Spagna, che in Europa condividono con l’Italia il ruolo di ultimi della classe, hanno prodotti meritevole di attenzione.
La disastrosa situazione finanziaria dello stato greco ha fatto si che per la prima volta in questo paese si producesse un film-documento partendo dalla partecipazione diretta del pubblico. Una comunity web, frequentata anche da esperti del settore economico e finanziario,  ha ideato, scritto e diretto il documentario Debtocracy che analizza l’attuale crisi dello stato greco e cerca nella storia le cause del debito pubblico proponendo soluzioni alternative a quelle proposte dal governo e dai media dominanti. Il documentario è distribuito online sotto Creative Commons License dall’ aprile del 2011.
Riguardo la Spagna consiglio di vedere ilfilm El concursante diretto da Rodrigo Cortés. E’ decisamente originale e senza dubbio può essere definito un film scomodo. E’ uscito nelle sale spagnole nel 2007 per rimanerci molto poco. Dopo essere sparito per un paio di anni da tutti i media tradizionali, senza nessun valido motivo, è riapparso in rete raccogliendo pubblico e consensi .
Argomenti del film sono il sistema bancario, il signoraggio e le tasse. E’ la storia di un’ uomo che dopo aver vinto un premio miliardario in tv entra in contatto con il mondo della finanza scoprendone difetti e inganni.
Quasi al termine di questa carrellata, elenco tre documentari che parlano di ambiente, risorse planetarie e multinazionali. I tre argomenti sono legati a filo doppio al futuro sviluppo della crisi economica mondiale. Le risorse ambientali diventano non solo il bene economico di rifugio ma l’unica fonte di guadagno certa per i grandi gruppi finanziari . Le imprese senza scrupoli colpite dalla crisi non accetterebbero mai un calo considerevole dei profitti, pertanto si rifugerebbero ancor più nello sfruttamento delle risorse ambientali ma senza investire nella rigenerazione delle stesse, condannando così  ad un orribile destino le generazioni future. Questi documentari ce lo spiegano.
Home è un documentario su ambiente e cambiamento climatico di Yann Arthus-Bertrand, prodotto da Luc Besson, diffuso contemporaneamente nel 2009 nelle sale cinematografiche di 50 paesi, in concomitanza con la giornata mondiale dell’ambiente. Concepito come un reportage di viaggio, è realizzato quasi interamente con immagini aeree.  Tema ricorrente del documentario è quello del delicato e fondamentale collegamento che esiste tra tutti gli organismi che vi fanno parte.
Una scomoda verità (An Inconvenient Truth) è un film-documentario diretto da Davis Guggenheim, riguardante il problema mondiale del riscaldamento globale, e avente come protagonista l’ex vicepresidente degli Stati Uniti d’America, Al Gore. Si basa in larga parte su una presentazione multimediale che Gore ha utilizzato come parte della sua campagna di informazione sui cambiamenti climatici. Il film ha vinto il premio Oscar 2007 come miglior documentario.
The Corporation è un documentario canadese del 2003, diretto da Mark Achbar e Jennifer Abbott e tratto dall’omonimo libro di Joel Bakan. Il documentario analizza il potere illimitato che hanno le multinazionali nell’economia mondiale, e i danni che esse creano. Arriva persino a dimostrare che se una multinazionale fosse un essere umano avrebbe il profilo psicologico di uno psicopatico.
Per chiudere il percorso inserisco un film di qualche tempo fa e dai toni meno impegnativi, utile però per ricordarsi le primordiali finalità di un’economia basata su imprese e capitali. E’ la favola di Mister Hula Hoop ambientata nella New York all’epoca della grande depressione degli anni trenta.  Il film del  1994, scritto e diretto dai fratelli Joel e Ethan Coen, cerca di mettere in ridicolo la perdita di senso del mercato azionario inteso come mezzo di finanziamento di un progetto industriale finalizzato alla realizzazione di prodotti che soddisfino le esigenze dei consumatori.Il percorso fin qui proposto è un pretesto per riflettere su un argomento che influenzerà nel bene e nel male l’intero pianeta e soprattutto la nostra vita quotidiana.
Il percorso di analisi di questa crisi rimane comunque lungo. Il tempo a disposizione per trovare soluzioni a tutto questo è estremamente breve. Tutti noi saremo chiamati a fare delle scelte quanto prima ( Crisi, dal greco κρίσις, significa scelta). Quelle che ne scaturiranno da questa consapevolezza saranno comunque forti e influiranno qualsiasi ambito, anche il mio naturalmente.
di Luca P. Battista